I momenti di crisi hanno necessità di una cura ed attenzione speciali, per noi stessi e per l’altro.
Ci costringono a fermarci, ad ascoltare e ad ascoltarci.
Ciò che accade in noi in quel preciso istante di immobilità e di ascolto, rappresenta un punto essenziale, quel perno che ci tiene appoggiati e solidi, quell’ancora che nonostante la mareggiata ci mantiene saldi sulla nostra zattera.
Potrà capitare di incontrare ciò che nel nostro peregrinare quotidiano ed ordinario, cerchiamo costantemente di evitare. Come quella sensazione di disagio e di incompiutezza, quel sentirci fragili e avvolti dal velo sottile dell’impermanenza, quel costante richiamo intenso e profonda alla vita insieme a quell’oscuro tremore interiore che chiamiamo paura.
La paura con le sue tante sfumature: la paura del vuoto, la paura del silenzio, la paura dell’immobilità, la paura di non farcela, la paura di non adempiere al nostro compito, la paura della paura, la paura della morte…
Evitiamo costantemente l’immobilità e il silenzio perché rappresentano per noi condizioni simili alla morte, ma in questo modo evitiamo di riconoscere quanto la morte sia parte della vita stessa.
Ciascuno di noi porta nel cuore il proprio dolore, la propria tangibile umanità, la propria frustrazione, il proprio essere piccolo di fronte alla grandezza della vita che cammina costantemente al fianco della morte; come l’alba accompagna il tramonto, come il buio segue la mancanza di luce, come la felicità abbraccia la tristezza, come l’inizio porterà la fine, così la vita ci conduce inesorabilmente alla morte.
Quando riusciamo ad afferrare tutto questo, possiamo rimanere saldi e comodamente seduti sulla nostra zattera durante le mareggiate, perché avremo compreso il senso ‘altro’ della vita e il nostro cuore avrà imparato a sostare in quello spazio di vuoto e di silenzio che è la più profonda cura della nostra più antica paura: la paura della morte.
Rita Casadio | Febbraio 2020